6-7-8 Settembre 1997 - Città Spettacolo - Benevento
bozzetto di scena di Giuseppe Crisolini Malatesta
Francesca Benedetti, Franco Graziosi
Nostre Ombre Quotidiane di Lars Norén - Regia di Sandro Sequi. Con Franco Graziosi, Francesca Benedetti, Roberto Trifirò, Pino Censi, Ken Ponzio. Scene e Costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta. Benevento Città Spettacolo prima rappresentazione assoluta - Benevento 6-9-2007.
Franco Quadri su nostre ombre quotidiane
Esiste presumibilmente un problema del padre per Lars Norén. Ma se era inevitabile vedere in lui, dopo Bergman, un altro erede di Strindberg – riconosciutosi in vita con compiacimento e macerazione negli attributi del "figlio della serva" – lo scrittore, a quel tempo apprezzato soprattutto come poeta, un padre putativo se lo va a trovare, attraversando l’oceano, in Eugene O’Neill. E’ un viaggio di ritorno perché – dalla tragedia greca al naturalismo nordico – è nota l’ispirazione europea dell’autore americano, che proprio in Svezia avrebbe ottenuto, unico tra i drammaturghi del suo paese, il riconoscimento più ambito per un letterato; e che, dimenticato in vecchiaia soprattutto dai suoi connazionali, da Stoccolma sarebbe ripartito post mortem con una nuova celebratissima carriera siglata da quattro inediti in sette anni. La prima mondiale di Lunga giornata verso la notte al Dramaten fu un avvenimento anche per Norén, che se non ha succhiato la passione per la scena da quel testo, certo ne ha tratto suggestioni. In Nostre ombre quotidiane (1991), letteralmente "E dateci le ombre", dal titolo di un testo distrutto dello scrittore americano, gli O’Neill scendono direttamente in campo: lo schema che l’autore stesso aveva forgiato per il suo quadro di famiglia viene spostatodall’autobiografia giovanile alla biografia senile, con il vecchio Eugene trasferito da ruolo di figlio cadetto a quello di padre, in un contenitore ambientale molto simile. Anzi l’imponente spettacolo di Bjorn Melander al Dramaten ricostruiva l’interno scenografico a due piani attenendosi meticolosamente alle didascalie della Lunga giornata , con la giustificazione della continuità della nuova villa sulla costiera del New England rispetto a quella "storica" di trentasette anni prima. Di quella casa nella nuova pièce si parla spesso, non solo come si fa nei riguardi dei luoghi nefasti nell’antica tragedia; quella dimora divenuta simbolica, oltre che di ricordi, è meta di visite mancate. Allo stesso modo si cita il dramma archetipale, di cui circola in casa l’originale ancora inedito; e il fatto che nel corso della rappresentazione venga fatto leggere dall’autore al figlio è causa del più terrificante tra i numerosi sgradevoli scontri tra lui e facciamo conoscenza con la moglie, gelosamente esclusiva, alla quale era stato dedicato. Nel 1949, in quest’altra villa isolata in riva al mare, nelle tenebre di un inverno prematuro, so duplica per "l’Eschilo d’America" prossimo alla fine il destino di una maledizione a quattro. Siamo, come si è detto, nell’anno in cui il capolavoro segreto è stato impacchettato per i posteri. Nel giorno del suo sessantunesimo compleanno, incontriamo lo scrittore impotente anche creativamente perché scosso dal morbo di Parkinson, anche se da qualche tempo ha rinunciato a bere, e facciamo conoscenza con la moglie, logorata da vent’anni di dedizione e frustrazione, sentinella prepotente e vendicativa della solitudine che l’imprigiona. I due figli in visita, che come la coppia ospite in Chi ha paura di Virgina Woolf?, scatenano la battaglia di parole, sono altri due rottami: uno alcolizzato come l’omologo zio (e il nonno) nel suo precedente lavoro, l’altro posseduto dall’eroina come la nonna dalla morfina. Dell’altra figlia Oona, maritata Chaplin, da quando ha sposato un coetaneo del padre, è proibito far menzione se non furtivamente, sottovoce. I due coniugi vampiri si nutrono di un reciproco odio vitale e lo riversano sulla generazione successiva, risucchiata nel gorgo, stroncata dall’egoismo di un superuomo senza umanità, a dispetto delle coccodrillesche cadute nella tenerezza, e dalla meschinità avida, rapace, autoritaria della matrigna. Le parole tremende pesano più degli scontri fisici liberatori tra i due vecchi, delle suppellettili tirate come proiettili, mentre ciascuno cerca di concretizzare la sua discesa agl’inferi: il padre distrugge nel fuoco del camino vent’anni di manoscritti, la madre annuncia un irrealizzabile addioe si cimenta pure in un approccio con il cameriere orientale; Eugene Jr., ubriaco fradicio, grida la propria nullità e si predice un appuntamento con la morte prima dei vicini quarant’anni, Shane si buca a vista in una gamba, perpetuando un abitudine contratta durante il servizio militare in marina, dove Edmund nel testo prototipo aveva covato la tisi. "E’ strano come tutto si ripeta" dice uno di loro, fungendo da portavoce dell’autore perfettamente cosciente che l’eccesso, l’autocitazione smodata, l’iterazione martellante costituiscono la masochistica ricetta alla O’Neill per questo tipo di saga memoriale, da sospendere tra realismo e ritualità come nella messinscena di Stoccolma. La fine coincide con quella della Lunga giornata, col protagonista di oggi immerso nella memoria del giovanotto di allora, sotto l’incubo dei passi della madre che si droga di sopra, già preparato ad accoglierne delirando la discesa vaneggiante dalle scale.
Post Fazione di Franco Quadri al libro di Lars Norén "Tre Quartetti" che comprende le traduzioni di Annuska Palme Sanavio di 3 lavori teatrali pubblicati nel 1995 dalla Ubulibri.
PRIMA FILA - novembre 2007
Oramai vecchio e stanco il noto drammaturgo americano Eugene O'Neill, ritiratosi a vita privata in una villa sul mare, assieme all'ultima moglie Carlotta, un attrice che per lui ha rinunciato alla carriera; non scrive più, o meglio scrive spazzatura - come ammette lui stesso - che alla fine brucerà; sembrano lontani i successi di Il lutto si addice ad Elettra, mentre a Broadway, un posto in cui rubano l'anima e dove Eugene non vorrebbe mai mettere piede, furoreggiano autori come Arthur Miller e Tennessee Williams.
E hanno anche problemi economici i coniugi O'Neill. Con queste premesse poco felici si dovrebbe festeggiare il compleanno di lui, i cui figli, uno alcolizzato e l'altro eroinomane (proprio per non tradire quelli che paiono vizi di famiglia), arrivano a fare da catalizzatori della situazione dannata completando questo quadretto.
E la giornata si consuma in una sorta di reiterazione di un rito quotidiano in cui Carlotta, spietata nella sua violenza verbale, rinfaccia al marito di averla bruciata nella carriera, segregata in una casa lontano dalla vita, persino privata di un opera (Il lutto) scritta - solo materialmente, s'intende - da lei stessa; lo accusa di rubare le frasi del quotidiano per le battute dei suoi copioni, di non fare più l'amore con lei. E lui blandamente reagisce con le sue incertezze, le sue paure, i suoi tremori di uomo malato, sommesso, finito...o mai iniziato. Lo spettacolo è tutto un duello di parole che ha luogo in un salotto incastrato in una graticcia con i fari a vista a renderlo simile a una gabbia, a un ring, con luci di un bianco freddo da laboratorio per cavie umane. Francesca Benedetti, una tigre, ha le battute più graffianti, e quasi sovrasta, con il suo impeto e la sua voce d'attrice, la recitazione più intimista di un raffinato e discreto Franco Graziosi: il contrasto è evidente e - si suppone - voluto. La giornata velenosa e avvelenata termina con la lettura di quello che sarà il capolavoro postumo di Eugene O'Neill, il dramma della sua vita: La lunga giornata verso la notte.